Il calcio che vogliAMO

scritto da Davide Perego
di Davide Perego
Non tragga in inganno la copertina. Partiamo dalla prefazione: “Il calcio che vogliAMO” è un
laboratorio di idee varato dalla Gazzetta dello Sport con il prezioso
contributo di TIM, uno sponsor che ama il calcio. Non me ne voglia Umberto
Zapelloni ma, parafrasando un intervento di Beppe Grillo in quel di Sanremo –
datato quasi un trentennio fa – il rapporto fra TIM che ama il calcio e Barilla
che ama i giovani ci sta tutto. E non è credibile. Proprio perché laddove c’è
uno sponsor di un certo genere – e anche a questa non vorrei togliere la paternità
al suo autore – non può esserci la verità. Applaudirono tutti in quel Teatro
Ariston. Così come tutti applaudiranno questa nuova pubblicazione di Rcs
Mediagroup S.p.a.
Tutti tranne me e, forse, pochi altri. Il viaggio nel
migliorabile dello sport preferito dagli italiani ha convinto proprio quella
fetta di pubblico che vorremmo sparisse dagli stadi. Quelli che vogliono
strutture più confortevoli di proprietà dei club, finanziate dal pubblico. Quelli
che vorrebbero il potenziamento dei settori giovanili citando la Cantera del Barcellona.
Quelli che pensano di migliorare un calcio rendendolo “amabile” citando riforme
di giustizia sportiva, controlli severi sugli striscioni, riduzione del numero
di squadre nelle massime categorie, introduzione del fair play finanziario e
via dicendo.

Purtroppo nessuno ha concentrato l’attenzione sul passaggio che
anticipa tutto quanto di oggi rende impossibile – se non tappandosi il naso –
l’ingresso in una struttura dove si pratica un’attività sportiva agonistica. Di
recente ho avuto l’opportunità di assistere da spettatore a tornei provinciali
e regionali, in Italia ed in Svizzera, riservati alle categorie dei nati tra il
2003 ed il 1997. Lasciando da parte per evidenti motivi la diversità di
approccio alle partite da parte del pubblico, a seconda della nazionalità, ciò
che continua a lasciare perplessi nel disinteresse generale – prima di ciascun
altro proprio da parte delle istituzioni – è l’assoluta mancanza di educazione
proprio su quegli spalti che si vorrebbero migliorare nella loro obsolescenza
estetica. Bestemmie, insulti ad avversari e (soprattutto) ai direttori di gara,
fanno parte del consolidato. Non ci si indigna più. Si scherza e si ride dando
della testa di caXXo a bambini, arbitri, dirigenti ed allenatori. Ci si
ingurgita una salamella e ci si beve una birra sopra senza vergognarsi. L’altro
giorno, durante una gara di 2001, una mamma che ha insultato pesantemente
l’arbitro per tutta la partita, alla richiesta di smetterla, ha risposto
urlando che avendo pagato il biglietto si sentiva in diritto di poter dire e
fare ciò che volesse. Girandosi verso il pubblico sorridente e fiera, la mamma,
è stata applaudita. Un giorno prima, in una realtà simile, ma nella categoria
2003, una mamma ha dato ripetutamente dello scemo e dell’imbecille al numero 2
della squadra avversaria. Se la circostanza non ha prodotto incidenti è
probabilmente dovuto all’assenza del genitore del numero 2 sulla tribuna del
campetto di periferia. Mamme e papà invasati di protagonismo, frustrati
dall’aver fallito in un mondo che avrebbero voluto conquistare, ripongono nelle
capacità dei propri figli le loro speranze di riscatto in una vita che non
offre loro soddisfazioni ed interessi differenti. Il cancro si è esteso a
macchia nella stessa proporzione della bestemmia. E di questo, purtroppo, nel
best seller di Gazzetta e Tim, non se ne parla. Si vogliono settori giovanili
in stile Cantera ignorando che a noi, più che agli altri nostri fratelli
europei, mancano le basi. Che si chiamano educazione e rispetto. Che si
chiamano pazienza. Che si chiamano gioco e crescita proporzionale alle singole
potenzialità. Che si chiamano allenamenti. Che si chiamano soprattutto
silenzio. Il libro è sostanzialmente un’occasione persa. Un prodotto rivolto a
milioni di praticanti e simpatizzanti, avrebbe dovuto ricordarsi che se negli
Stati Uniti o in alcuni paesi europei ci si stringe la mano anche tra tifosi,
non è casuale. Così come non è casuale se negli sport professionistici
americani non esiste il tifo organizzato e gli striscioni sono dei cartelli di
incitamento ai propri idoli. Che guadagnano sì un pacco di soldi, ma che non
possono sfuggire a quelle regole che ad esempio in Italia sono ancora sul
tavolo dei politici istituzionali della Federazione. Fino a quando non vi
saranno interventi radicali da parte delle società stesse nei confronti
dell’ignoranza del pubblico – soprattutto di quello che assiste alle partite
dei più piccoli – riportando l’avvenimento in un contesto tipicamente sportivo
ed educativo, ogni tentativo di sedersi attorno ad un tavolo o di scrivere un
libro sarà utile soltanto all’applauso, al commercio, all’illusione. Con il sorriso beffardo dello sponsor.

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